Le nozze di Cana | Giotto

II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

19 gennaio 2020
II DOMENICA DOPO L’EPIFANIA
Giovanni 2, 1-11

 

Riflessione a cura di don Erminio Villa

 

1. È il primo di tutti i segni” per Giovanni. Quella festa racconta le nuove nozze tra Dio e l’umanità.

La vecchia Alleanza si va esaurendo, come il vino. Occorre una rottura con il passato e un rilancio: ripartire con un nuovo volto di Dio.
La novità sta nel contenuto delle anfore: prima il rapporto con Lui era basato sul peccato e la sua doverosa purificazione; ora il rapporto nuziale è basato sulla grazia, sulla gioia del dono esuberante e immeritato.

“Gesù era lì coi suoi discepoli”. Si fa trovare a tavola, tra gente che ama, ride, scherza. E lì, a Cana, Dio salva la festa con 600 litri di vino: si allea con la gioia degli uomini!

Con quella spirituale e con quella fisica, col piacere di vivere: come quando gustiamo i momenti belli (un amore, un’amicizia, la nascita di un figlio, il ritrovarsi; ma anche i piccoli piaceri, un bicchiere di vino buono con gli amici, sentire il corpo sano, incantarsi davanti a un quadro, una musica…).

In quei momenti Dio è lì, come a Cana partecipa alla gioia degli invitati e si prende cura degli sposi.

 

2. “A un certo punto viene a mancare il vino”.

Quando anche la nostra vita si trascina stancamente e scarseggiano gli ingredienti della gioia, dell’amicizia, dell’entusiasmo… occorre qualcosa di nuovo. Ecco Gesù: il volto d’amore di Dio.
Anche nella nostra esperienza quotidiana viene a mancare quel non-so-che che dà qualità alla vita, un non-so-che di energia, di passione, di vitalità che dà sapore e calore alle cose.
L’amore vero è così poco! Quando finisce e si spegne la festa della vita, come uscirne?

 

3. Maria, attenta a tutto, se ne accorge per prima e lo segnala a Gesù: “Non hanno più vino”,

prova tenerezza per i due sposi, che non hanno meriti da vantare.

Con tenera premura di madre, gli chiede di intervenire a favore di questi giovani. Ma, nonostante il Figlio sembri prendere le distanze dalla madre, lei, esperta di fede e di umanità, chiama i servi a collaborare, mettendosi a disposizione.

Anche noi possiamo fare qualcosa di utile e di bello, di semplice ed essenziale: avere un cuore attento a tutto ciò che si muove nella nostra vita e attorno a noi; e non dire, ma fare il vangelo: “Fate quello che vi dirà”: rendetelo gesto e corpo. A queste condizioni si riempiranno le anfore vuote della vita.

Sono le ultime parole di Maria, poi non ne sentiremo altre. Sono le prime e le ultime rivolte a noi: Fate le sue parole, fate il suo Vangelo. Non solo ascoltatelo, ma diventate vangelo!

Così fanno i servi che “riempiono d’acqua le anfore”; fino all’orlo, senza risparmio, con docile obbedienza, poi attingono e portano al maestro di tavola.

E quando le sei anfore della mia umanità, dura come la pietra e povera come l’acqua, saranno offerte a Lui, colme di ciò che è umano e mio, sarà Lui a trasformare questa povera acqua nel migliore dei vini, immeritato e senza misura.

 

Io, cosa posso portare davanti al Signore? In tutta la mia vita poco; solo acqua.
Ho solo poche cose, un po’ d’amore, un po’ di fede, ma non importa: quel poco, fino all’orlo, è un’occasione di prodigi. A patto però di non fare come il direttore di sala,
che prima non si accorge del vino che finisce e poi non si interroga da dove viene quella bontà. Quanta bontà, che sorprese belle, nella nostra vita, da riconoscere e di cui essere riconoscenti!
Ma noi corriamo il rischio di non vederle, di non scorgere segni d’altro, di guardare senza interrogarci: questo amore oggi da dove viene? Fessura aperta sull’infinito è il bene.

Nella Messa si ripete il dono di Cana quando versiamo un po’ d’acqua nel vino, un gesto da nulla, ma con un grande significato: la nostra unione con Colui che si è unito a noi,
la nostra povertà nella sua ricchezza. Ed ecco che non distingui più l’acqua dal vino; sono un unico sapore, indissolubili per sempre.

Sono le nozze di Dio con l’umanità: Dio in me, io in Dio: il Dio della festa, che sta dalla parte del vino migliore, un Rabbi venuto a dare gioia ai poveri, un Dio felice che dona il piacere di esistere e di credere.