IL CASO (QUASI)SERIO DELLA MORTE

In questa V Domenica di Quaresima ci viene presentato uno straordinario brano evangelico: la risurrezione di Lazzaro. Si tratta di un brano di un’impressionante forza empatica, rielaborato con straordinaria bravura. Ci troviamo di fronte al sesto segno, per l’evangelista; il penultimo poiché il settimo e definitivo sarà la risurrezione di Gesù.

Viene narrata la morte di un caro amico di Gesù – Lazzaro – e la sua reazione squisitamente umana di fronte a questo mysterium iniquitatis, che però Egli fronteggia quale Figlio.

Per tre volte, all’inizio del racconto, a mo’ di incipit, viene sottolineato che Lazzaro “è malato” (Gv 11,1-3). Lazzaro abita a Betània insieme alle sue due sorelle Maria e Marta. Gesù è legato a questa famiglia, è “uno di casa”: nei suoi viaggi vero Gerusalemme probabilmente usava questa casa di Betània come alloggio poiché “Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri” (Gv 11,18). E’ di famiglia, ha condiviso con loro tre pasti, casa, parole, affetto. Gesù, il Figlio, ha condiviso con loro tutto ciò che era, giocandosi in una relazione. Gesù vuole entrare nella tua famiglia, chiede diritto di asilo e dovere di accoglienza. Se lo lasci entrare la tua famiglia si allarga.

Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (Gv 11,4) proclama Gesù, venendo a sapere della malattia dell’amico. E’ una frase a doppio senso: non solo Gesù verrà glorificato dal miracolo stesso ma proprio per questo si deciderà la sua morte che sarà, in ultima istanza, la sua glorificazione. Che bello, sarebbe, se questa frase divenisse proclamazione di fede fatta dai sacerdoti e dagli operatori pastorali impegnati nella visita ordinaria degli ammalati nella comunità. Che bello, sarebbe, se nel Rito delle Esequie che celebriamo, questa frase divenisse proclamazione di fede che scalda il cuore dei convenuti e dei parenti. Che bello, sarebbe, se noi cristiani, credessimo un po’ di più a questa parola di Gesù! Che bello se questa frase divenisse proclamazione ultima sulla malattia, senza cadere nello sconforto e nella paura.

Gesù si trova fuori dal territorio, dopo l’ennesima delusione e il secondo tentativo di lapidazione (cfr. Gv 10,31). Egli decide di ritornare al luogo iniziale, “al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava” (cfr. Gv 10,40). Appresa però la notizia riguardante l’amico, Gesù decide: “Andiamo di nuovo in Giudea!” (Gv 11,7).

I suoi si oppongono; i discepoli faticano a tenere lo stesso passo del Maestro: “Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?” (Gv 11,8). Ma Gesù è ostinato: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui” (Gv 11,9-10). La sua risposta è paradigma dell’ostinazione del Padre che si ripercuote nel Figlio. E’ ostinazione di salvare “a tutti i costi” non il numero maggiore, ma tutti! E’ ostinazione di illuminare tutti, finché Egli è qui. Gesù è fortemente ostinato nei nostri confronti; è fortemente ostinato oltre ogni nostra ostinazione.

Eppure questa ostinazione diventa attesa mediata e mai immediatezza: “rimase per due giorni nel luogo dove si trovava” (Gv 11,6b). Gesù attende, al limite; non interviene subito. Anche questo dovrebbe farci riflettere. Non corre subito da Lazzaro per guarirlo ma attende qualcosa che solamente Lui sa. In questa attesa, Gesù annuncia ai suoi che “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!” (Gv 11,14b-15). Il brano è drammatico e non accenna a diminuire nei toni. Tommaso, l’apostolo della fede (cfr. Gv 20,24ss.), incredulo fino all’ultimo, nomencla questo come l’ultimo viaggio: “andiamo anche noi a morire con lui!” (Gv 11,16b). E’ la segna di resa, di sconforto, di depressione, di paura di fronte al dramma (quasi)serio della morte.

Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro” (Gv 11,17). Secondo la lettura giudaica, il quarto giorno segnava l’inizio della corruzione del corpo. Il quarto giorno indica che Lazzaro è definitivamente morto. Non c’è più nulla da fare se non il lamento funebre.

Marta, appena viene a sapere che Gesù è arrivato, “gli andò incontro” (Gv 11,20). “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (Gv 11,21) gli rimprovera Marta. E’ il medesimo rimprovero che la sorella Maria farà poco dopo (cfr. Gv 11,32). Le due sorelle rimproverano al Maestro la sua assenza. Quante volte anche noi rimproveriamo Gesù per la sua assenza nella nostra vita! Quante volte vorremmo dirgli noi cosa fare e come agire. Quante volte lo rimproveriamo per colpe che sono nostre! Quante volte crediamo che Egli arrivi troppo tardi.

Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11,25-26) risponde Gesù ai dubbi di fede di Marta. Il brano gioca tutto attorno a questo verbo: credere. Questa fede permette che “per grazia siamo salavti” (Ef 2,8). Gesù, in questo sesto segno, si manifesta in toto. Anticipa quello che da lì a pochi giorni sarebbe accaduto a Lui. Il legame con Lui permette di partecipare a questa dilatazione del tempo-oltre-il-presente, partecipando dell’eternità già qui e già ora.

Di questa partecipazione bisogna mettere al corrente anche Maria, non si può trattenere. Maria, appresa la notizia dell’arrivo di Gesù, si alza in fretta per andargli incontro. Anche lei rimprovera al Maestro la sua mancanza: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (Gv 11,32b).

E qui tutto il pathos, il con-patire del Figlio, esplode nel dramma: “si commosse profondamente e, molto turbato, scoppiò in pianto” (Gv 11,33.35). Gesù vedendo piangere Maria e piangere anche i Giudei, si commuove. Il Figlio mostra tutti i suoi sentimenti di con-passione per ogni umana esistenza. Lui, l’Inviato dal Padre, si con-muove per l’uomo. Di fronte al dramma della morte, Gesù è mosso interiormente, piangendo. E’ l’unico brano evangelico che ci mostra un Gesù così potentemente umano da scoppiare in lacrime. Questo pianto non contraddice l’affermazione precedentemente proferita; Gesù è davvero la risurrezione e la vita. Non piange per la dipartita dell’amico poiché fin dall’inizio del racconto la morte di Lazzaro diventa quasi necessaria affinché i suoi credano. Il pianto in cui scoppia Gesù è più profondo; è marcato da una domanda di senso che sta all’origine. Questo turbamento è piuttosto la presa di coscienza del Figlio di fronte al mistero del male che da sempre attanaglia l’uomo. E Gesù, il Figlio, e il Padre in Lui, se ne dispiace. Piange per l’umanità tormentata. Non vuole che i suoi conoscano la morte. “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” (Ef 2,4-5) afferma deciso Paolo. L’uomo non è fatto per marcire, “siamo infatti opera sua” (Ef 2,10a)!

Gesù “ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra” (Gv 11,38) e lapidario ordina: “togliete la pietra!” (Gv 11,39a). Quante volte preferiamo rimane in fondo alla grotta del nostro cuore, chiusa ermeticamente, lasciando tutto fuori? Quanti cristiani che, di fatto, si comportano da morti viventi? Quante situazioni, quanti dolori, quante ingiustizie, quanti lamenti, quante beffe, quanti peccati, quanta incredulità che rischiano di chiuderci in un sepolcro per sempre! Ma Gesù ordina “via la pietra!”; la sua voce è chiara, autoritaria; comanda alla pietra che ti tiene prigioniero di togliersi, di spostarsi. Gesù è Colui che vuole aprire il tuo sepolcro, ti vuole rimettere alla luce del giorno e non a quella di tenebra. Marta però si oppone: “manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni” (Gv 11,39b) come a dire che nemmeno Gesù può fare più niente. La fede di quelle due sorelle è una fede a metà. Non si tratta qui dello storpio o del cieco. Qui c’è un morto vero. Marta riconosce che Gesù è il Cristo, crede che è il Figlio di Dio (cfr. Gv 11,27) ma la sua fede si ferma alle cose possibili. Marta crede nella possibilità di Dio nelle cose possibili. Non crede nell’impossibile. Deve essere la stessa esperienza degli Israeliti bloccati in riva del mare, con l’esercito del faraone alle spalle. Anche il popolo ha provato cosa significa essere chiusi in un blocco di morte che viene improvvisamente aperto da permettere loro di “camminare sull’asciutto in mezzo al mare” (Es 14,29). Il passaggio di Gesù in casa nostra segna una passaggio delle nostre condizioni

E qui il rimprovero di Gesù risuona, da secoli, anche in noi: “non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?” (Gv 11,40). Ecco la vera fede. Noi dovremmo vedere, quotidianamente, la gloria di Dio nella nostra vita! E che cos’è questa gloria se non la presenza costante, personale, amorevole, attenta di Dio nella vita? Il credente ha questa capacità sovrannaturale, per natura stessa della fede, di vedere “la mano potente” (Es 14,31a) di Dio su di lui.

Ed è a motivo della fede dei suoi che Gesù opera questo segno di potenza. Il rapporto costante con il Padre ci dice la condizione sottesa dei segni da Lui compiuti. Il suo rapporto originale e originante con il Padre è carico di consapevolezza: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato” (Gv 11,41b-42). Questa preghiera è anticipo della vittoria sulla morte che sarà definitivamente-definitiva la mattina di Pasqua.

Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11,43b). Il comando diventa ora un grido: anche la morte obbedisce a Colui che è la Vita! Anche la condizione più disgraziata che ci portiamo appresso viene sciolta dalla Vita. La morte non ha l’ultima parola su di noi, mai.

L’evento avviene in diretta; anche molti Giudei presenti, alla vista di ciò, “credettero in lui” (Gv 11,45b). Ora Gesù si è davvero esposto, nonostante il rischio in cui sa di incorrere. Gesù non ha paura perché completamente affidato al Padre; è totalmente legato a Lui. Accetta il rischio, non lo fugge.

Ad aver paura sono i capi dei sacerdoti e i farisei; hanno paura di perdere il controllo, il potere. “Riunirono il sinedrio” (Gv 11,47a), il supremo consiglio è convocato per prendere una decisione.

Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo” (Gv 11,53).Non tengono però presente, loro, che da quel giorno, la morte è diventata meno dura e meno seria.

Alessandro