28 giugno 2020
IV DOPO PENTECOSTE (A)
Luca 17, 26-30.33
Riflessione a cura di don Erminio Villa
1. Buone abitudini e ovvietà incosciente
I giorni della storia dell’uomo sono attraversati dal male e da una serie di peccati tanto gravi… Dove sbagliavano gli uomini e le donne dei giorni di Noè? Ripetevano una serie di azioni normali, buone ed essenziali per vivere: “mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito”. Ma la conclusione è drammatica: “venne il diluvio e li fece morire tutti”. Lo stesso si dice degli uomini che vivevano nei giorni di Lot: “mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano”. E anche per loro: “piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti”.
Si impone una distinzione: altro sono le abitudini buone della vita e altro è uno stile di vita caratterizzato da un’ovvietà incosciente e spensierata. Altro è mangiare, prendere moglie o marito, comprare o vendere, piantare o costruire per vivere; altro è fare queste azioni senza una ragione, avendo perso l’orizzonte che le giustifica e le qualifica: facendo tutto in modo ovvio (ob-vius, che ti viene incontro); abituandosi a tutto, anche al male, sino a ritenerlo normale, ovvio; attorno a te e in te.
2. Una vita donata è salva
Gesù pronuncia una sentenza seria e schiacciante, capace di smuovere le coscienze e di obbligare all’impostazione di domande fondamentali: «Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva». Commenta Agostino: «Che dire? Verranno condannati tutti quelli che si sposano, piantano vigne e costruiscono? No, loro no! Ma quelli che si vantano di queste cose, quelli che antepongono queste cose a Dio, e sono disposti ad offendere immediatamente Dio per tali cose».
In realtà, chi perde la vita per averla voluta conservare se non colui che è vissuto esclusivamente per la carne, senza lasciar emergere lo spirito; o peggio chi, pieno di sé, ignora del tutto gli altri? Perché è evidente che la vita nella carne deve perdersi inevitabilmente, e la vita nello spirito, se non viene condivisa, si indebolisce. Ogni vita, per sé stessa, tende naturalmente alla crescita, a fruttificare, a riprodursi. Se, invece, viene rinchiusa, nell’intento di possederla con cupidigia ed in forma esclusiva, diventa sterile e muore.
3. Entrare nell’Arca – uscire da Sodoma
Gesù, descrivendo i giorni di Noè e i giorni di Lot, ci segnala due verbi di movimento in grado di indicarci una prospettiva che ci porta oltre una ovvietà a rischio continuo di accidia, incline a perdere progressivamente la speranza e il sapore della vita. Noè, in obbedienza a Dio, entra nell’arca, mentre col diluvio tutti gli altri uomini sono morti. Lot, invece, su consiglio di Dio, esce da una città corrotta, riuscendo in questo modo a salvarsi.
Per anni, per secoli, siamo stati invitati a entrare in chiesa, ad appartenere alla chiesa, abitandola come se fosse un’arca nella quale ripararci dai mali del mondo. Da qualche tempo, a partire dal Vaticano II e anche papa Francesco lo ricorda spesso, è più facile rileggere la missione della Chiesa più nei termini dell’andare, dell’uscire. Come fosse finito il tempo di stare accucciati nell’arca in attesa di tempi migliori. E’ tempo di uscire dai schemi e da categorie ecclesiastiche irrigidite, mentre nuove relazioni avanzano e gli occhi dei giovani s’illuminano di speranza.
“Una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà” (Evangelii Gaudium, 46).