18 settembre 2022
III DOPO IL MARTIRIO (C)
Giovanni 5,25-36
Riflessione a cura di don Erminio Villa.
1. I capi di imputazione di Gesù
Gesù aveva guarito un paralitico alla porta delle pecore. Grande scandalo! L’aveva fatto di sabato.
La notizia arriva nel tempio. Dove si scatena la reazione. Anche dura.
“Per questo i Giudei perseguitavano Gesù perché faceva le cose di sabato“.
E poi: “Cercavano ancor più di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato,
ma chiamava Dio suo Padre facendosi uguale a Dio“.
Adesso capiamo perché in questo discorso di Gesù ritorni così spesso la parola “padre”:
“il Padre mio”. Chiamava Dio “suo padre”.
L’aveva chiamato tale dicendo, a proposito della guarigione del paralitico,
che lui non poteva fare diversamente: lui faceva le cose che fa il Padre suo, Dio.
Tutto il brano è giocato su uno specchiamento:
Il figlio si specchia nel padre e il padre si specchia nel figlio.
A Gesù non interessa la sua gloria. Al contrario dei suoi oppositori: a loro sì,
a loro, uomini della religione, interessava semplicemente la loro gloria.
Tant’è che pur avendo mandato uomini dal Battista per ascoltare la sua testimonianza,
se ne erano lasciati illuminare solo per poco, poi aveva prevalso la sete della loro gloria,
il culto della loro immagine. Non era quello che muoveva Gesù.
2. Il riferimento continuo al Padre
Se la relazione di Gesù è sempre col Padre, aveva lui come il suo riferimento.
Allora arriva a noi una domanda: le mie scelte da chi, da che cosa sono dettate?
Dall’amore, dalla ricerca inquieta della mia gloria?
A chi guardo, di chi ascolto la voce, quando devo fare delle scelte?
Non dovrei anch’io frequentare più assiduamente il mio spazio interiore,
coltivare una relazione preferenziale con un Dio che mi è Padre?
3. Gesù testimonia il Padre, e il Padre dà testimonianza al Figlio
Dio per lui non era un nome pallido, sbiadito, scolorito. Il suo Padre, Gesù l’aveva visto operare.
È attraverso le opere e non nelle chiacchiere, fossero pure religiose, che si fa conoscenza vera dell’altro.
E proprio attraverso l’operare di suo Padre Gesù aveva fatto esperienza di un Dio molto lontano dall’immagine ingessata che veniva proposta nel tempio. Un Dio ingessato nei precetti e nelle tradizioni.
Pensiamo alla grazia che ci è stata fatta: per farci un’immagine non contraffatta, ma autentica di Dio, noi ora abbiamo un luogo, una persona. Specchio di Dio, con la sua vita e la sua morte, con le sue scelte, con le sue opere, è per noi Gesù di Nazaret.
Ebbene: specchio di questa immagine promettente di Dio è Gesù, che fa camminare il paralitico, che mangia con pubblicani e peccatori. Ecco perché erano inorriditi gli uomini del tempio.
Era il vero racconto di Dio. Dio è da raccontare. Questo verbo dice molto del verbo “testimoniare”, più volte incontrato nel brano di Giovanni.
Testimoniare non è fare esposizioni apologetiche o dissertazioni teologiche, che lasciano il tempo che trovano, soprattutto nelle donne e negli uomini d’oggi. C’è un abisso tra proclamare e raccontare. La proclamazione ha molto dell’impersonale, dall’alto in basso. Nel racconto ci sei tu, c’è qualcosa da cui tu sei stato affascinato, ti si infiammano gli occhi. Non è una fredda esposizione, il racconto ha un calore. E forse è questo che è venuto a mancare, nei nostri discorsi: c’è molta teoria, e poca pratica.
Ci suggerisce il salmo 78: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto” (78,3-4).