Il Buon Pastore

«Io sono…»

3 maggio 2020 
IV DOMENICA DI PASQUA (A) 
Giovanni 10, 11-18

Riflessione a cura di don Erminio Villa.

1. “Io sono…”

Il Vangelo ci regala un’altra immagine biblica per approfondire il significato di Gesù risorto. È un’icona che ci è particolarmente cara, che la sollecitudine pastorale della Chiesa ha legato alla Giornata di preghiera per le vocazioni di speciale consacrazione.

Per ben due volte in questo brano Gesù dice di sé: “Io sono il buon pastore”. L’esplicita identificazione di Gesù con l’icona biblica del Pastore buono, va rispettata. S’intuisce la stessa carica di quando, dal roveto ardente, il Signore regalava il suo nome a Mosè, dicendo: “Io sono colui che sono” (Es 3,14-15).

Facciamo attenzione ad applicare con eccessiva leggerezza ai pastori delle nostre chiese l’immagine del pastore, che Gesù rivendica così intensamente a sé. C’è una distinzione che va rispettata e talvolta c’è una distanza che va rilevata. Quanta bontà e quanta bellezza passano attraverso l’insieme delle nostre azioni pastorali? Cosa augurare, ad esempio, a un prete novello? “La gente ti annuserà per capire di che odore sei (cioè che tipo sei)”. Così dicendo Papa Francesco fa capire che dobbiamo avere l’odore delle pecore. Ci ricorda sempre che il primo impegno è diffondere ‘il buon profumo di Cristo’ (2Cor 2,15).

2. “Il pastore bello”

Gesù, con questa definizione, sta esplicitamente dichiarando la pienezza della sua condizione divina. Se dovessimo tradurre con maggior precisione quanto Gesù sta dicendo, dovremmo dire: “Io sono il pastore buono“, spostando l’attenzione sul pastore che sulla sua bontà. Se l’evangelista Giovanni avesse voluto parlare della bontà di Gesù, avrebbe usato il termine agazós (buono); invece ha usato kalós (bello). Perché intendeva affermare che Gesù è il pastoreautentico, il pastore vero

Gesù intendeva affermare la sua identità di pastore divino. Perché attorno a Lui circolavano ben altri pastori, con l’aria più del mercenario che del pastore. Il mercenario infatti, se “vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore”.

Lo aveva già detto Ezechiele al cap. 34: anche là il Signore rimproverava i pastori del suo popolo, che anziché prendersi cura del gregge loro affidato, pensavano ai loro affari e a se stessi. Così scatta una profezia: “Verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge” (Ez 34,11). Gesù, mentre parlava del pastore, voleva dire che il tempo della cura da parte di Dio del suo gregge era finalmente arrivato. Così si comprende la reazione dei capi dei sacerdoti e dei farisei, che, sentendolo parlare, si arrabbiano e lo dichiarano indemoniato, del tutto fuori di sé. (Gv 10,19-21).

3. Forte e tenero ad un tempo

Ripercorrendo il senso evangelico della metafora del pastore, siamo lontani da una certa iconografia sdolcinata del Buon pastore, come se Gesù fosse uno che avanza in modo leggero. Nella sua vita Gesù ha dovuto affrontare il lupo, che rapisce e disperde le sue pecore; ha affrontato, guardandoli in faccia, tanti mercenari, compreso chi si presentava come pastore, ma era ben altro. Per difendere le sue pecore ha persino affrontato la morte, come dice il profeta: “Ucciderò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse” (Zc 13,7). 

Quanta fortezza, quanta decisione in Gesù; ma anche quanta tenerezza! Quando consolava e fasciava le ferite della vita della gente e alleggeriva i loro pesi, mentre altri aggiungevano peso a peso. Quando rallentava il passo perché nessuno del gregge rimanesse indietro, neppure i più deboli. Sono la fortezza e la tenerezza che dicono la tempra del pastore vero, dei nostri pastori. 

Preghiamo Dio per i pastori delle nostre chiese, chiedendo che la loro umanità sia carica della fortezza e della tenerezza propria di Gesù. Per loro, Signore, ti chiediamo passione: che sappiano trasmettere qualcosa della tua santità.